IL RACCONTO SCRITTO NELLA FACCIATA DI SAN RUFINO,
di Enrico Sciamanna

Una pagina di pietre che incombe sulla nostra semplice storia, già quando bambini restauravamo cavalcando con i calzoni di tutti i giorni i leoni di pomato a custodia del portale. Fiere che a noi, senza peccato, non facevano paura, diversamente che all'ovino, o al contadino con la falce a cui stravolgono il capo. Inermi apparivano addirittura i mutili e stinti fratelli minori, dei portali di fianco. Forse perché eravamo sorvegliati e protetti dagli esseri ritratti sul perpendicolo, tra cui i volti dei nostri contemporanei solidificati ab aeterno per meriti inconfutabili. Visionario progetto ultramillenario di rappresentazione di un microcosmo con pretese di universalità, che ci faceva compagnia e ci osservava con aria di distaccato rimprovero, ben diverso da quello del sacrestano, quando accarezzavamo col pallone nasi, code, fronti e zampe di marmo e di travertino. Re David col suo salterio che già prefigurava, nelle mani e nella mente di Giovanni da Gubbio, il campanaro fabbro o friscolaro nei feriali, che suonava a doppio nei giorni di festa, coi suoi zigomi protesi e le gote che denunciavano generazioni di astinenze forzate. E le teste dei chierici, affioranti sul diametro del lunettone, ora color sanguinaccio, erano, nelle profetiche prolessi del sapiente lapicida medievale, il falegname, il muratore, lo stagnino dei giorni nostri: bocche facili alla bestemmia liberatoria, occhi acuti per misurare e paragonare, ovali qualsiasi, come di chi la nobiltà la esprime con il saper fare, non già col sangue e con l'armonia dei tratti; con il lavoro, ignobile, che, a quel tempo, non era ancora ciò che è dato all'uomo per trasformare il mondo, la continuazione dell'atto della creazione. Con una sintassi a singulti e a salti, è sciorinata un'esposizione di personaggi e non di vicende, di facce e di significanze più che di argomenti notevoli: una balia lavandaia è la Madonna del latte, che è lì lì per staccare il figlio altrui dal seno che già si conforma come un fiasco, successivo conforto allo stesso in età adulta, per mettersi la corona e poggiarci la canestra di panni - sempre di altri- da lavare alle fonti di Perlici. Facce con corpi prestati alla storia: a quella dell'arte come esempio, da quella quotidiana della sopravvivenza. Solitario il cane che eterna lo scodinzolio in un guaito di calcare, mentre infinite le ruote dei rosoni segnano il bloccato trascorrere del tempo: grandezza maggiore o minore, a seconda dei meriti. Ossimoro è il cerchio che invia al ritorno, che rimanda continuamente all'origine. Isola in mezzo alla terra (qualcuno mi perdoni l'abusato prestito), capoluogo di un arcipelago, abitata da giganteschi nani, educati in una forma dall'incontro tra il metallo dello scalpello, la fatica, la fantasia, la pietra, con l'alito del tempo, governata da un re cui la tristezza sgronda da ogni tratto e lo inclina a portarsi lontano dal prelato che si approssima al suo trono. La rassegna muta delle comparse vere o immaginarie della storia: i preti sgomenti con in mezzo l'immane pisside, e l'uva e i vendemmianti, il chierichetto col turibolo e la cotta modellata dal vento, ospite giornaliero dello spazio, e la cigattola che morde il racano e ne è morsa a sua volta, e la protome del niegolo multiforme che a ritmo variabile riappare col suo muso di blanda minaccia, le teste dei bovi, viste già per le processioni del venerdì santo, esposte sanguinanti nelle macellerie circostanti, alternate, sempre sulla facciata, ad animali incommestibili perché sconosciuti, metabolismo non alimentare, frutto di un arbitrio del caso, come quelli su cui gravano i tre telamoni dell'assoluto, gli atlanti di un universo di marmo traforato. Alieni e indifferenti le vanitose leonesse e gli aristocratici pavoni che si affrontano all'orlo della brocca; sdegnosi sovrastano le chiare figurette dei montanti minori e degli architravi su cui il loro mezzodisco poggia. Più in alto e da lunge lupo e lupessa mammelluta digrignano in cagnesco reciproco, schivando appena il gracchio "cubista", orfano della femmina che lasciò la mensola vuota (chissà quanti come quella hanno dispiegato ali, smosso zampe, levato gambe per lasciare quel paradiso minerale). Su tutti il tetramorfo, associazione titolare della giostra. Ma soprattutto la pietra che prevale con le screziature o le uniformità cromatiche, sulle linee che la modellano, siano esse il labirinto o le girali, il rettangolo o il cerchio. E le voci, le grida che per tutta piazzanova si diffondevano, mettendo in comune i fatti di ciascuna casa, quelle urla riflesse sulle sculture, nelle bocche squarciate dal gelo dei secoli. Ali degli angeli come ali dei piccioni, ali dei demoni come ali delle cornacchie. Il racconto che vi si narra è quello che riguarda tutti noi, che riusciamo a comprendere dato che lo leggiamo e lo agiamo, scritto con le connessioni arbitrarie dell'artista veggente che ce lo ha predisposto, quasi decidendo che ad esso dobbiamo uniformarci. Che fortuna chi ha sbalzato questo foglio! Chi non vibrerebbe d'emozione se fosse certo che la storia ricorderà una pagina di ciò che lui ha lasciato? Personalmente mi accontenterei di una frase.

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