UN VICOLO COME UNO STADIO,
di Carlo Cianetti

Un vicolo a "elle", in alcune parti rattoppato con il cemento e in altre con l'asfalto. Un vicolo inospitale. Lo stesso nome era di scarsa attrazione per qualsiasi turista. "Vicolo Oscuro". Forse era l'unica via di Assisi a dover subire uno spregio eccessivo, per causa del suo cupo toponimo. Eppure era uno di quei bracci di un dedalo intricato e intrigante dove certi visitatori amavano avventurarsi. Per dirla meglio, l'infelice aggettivo se pur per un verso scoraggiava la visita della via, quantomeno a coloro che non fossero affatto curiosi, dall'altro recava con sé quella sottile aura di mistero che accompagna tutte le cose, per così dire, poco chiare, oscure insomma. Eppure quel vicolo ha vissuto una stagione della sua pluricentenaria esistenza, piena di freschezza, ravvivata dalla trama chiassosa dei bambini al gioco. Anche nel silenzio delle voci, un sottofondo comunicava a tutti gli abitanti del luogo, che qualcuno stava lì a trastullarsi: era quello del pallone rimbalzante fra il pavimento e i muri. Un rumore aritmico. Più morbido quando il pallone era di plastica resistente, di quelli che si diceva, "vanno a vento" e che costavano mille lire; più lieve, quasi tintinnante, se la palla era leggera di quelle che si trovano anche negli autogrill; secco e afono era il rimbalzare del pallone di cuoio. Nei giorni di scuola il gioco aveva tempi imposti dagli orari dello studio: un'oretta appena mangiato e poi i richiami delle mamme si susseguivano, in fila, per costringere alla rincasata i chiassosi calciatori. A nulla valevano quei richiami, perché il gioco seguiva appuntamenti intrinseci e fissi, imposti dalle piccole e sempre euguali emozioni del divertimento. E se la prima parte del rincontrarsi pomeridiano era caratterizzata dai racconti della mattinata scolastica, accompagnata dagli stolti sbattimenti del pallone calciato distrattamente su e giù per il vicolo, durante la seconda parte si disputavano le gare, fatte di tiri o di brevi partitelle uno-contro-uno oppure due-contro-due. Quando si era in numero disparo allora si rimediava con il gioco alla "romana": un portiere a difendere un'unica porta e gli altri in attacco sempre uno-contro-uno o due-contro-due. Le regole erano quelle conosciute in ogni contrada della civiltà del pallone. Con una sola eccezione, ma anche questa ben nota: dopo tre calci d'angolo, che per la ristrettezza del luogo non si potevano battere, si tirava un calcio di rigore. Il battimuro, cioè la possibilità di superare l'avversario usando la sponda del muro, era la regola convenzionalmente accettata da sempre lì nel vicolo. Tutte le partitelle, di tutti i giorni, erano serissime. Erano serie e accanite come è sempre il gioco dei bambini. Ma in più tutti sapevano che c'era un grande padre del gioco, un garante della qualità tecnica e un arbitro estremo, cui ricorrere in situazioni di incomponibile bisticcio sulle regole o sulla correttezza di un comportamento tecnico. Solo lui sapeva dire con esattezza indiscutibile se quel gesto tecnico era un elegante tiro "all'ungherese" oppure una volgare "puntata". Se quel fallo era fallo da rigore, oppure punizione a due in area. Mai, in ogni caso, qualcuno ebbe il coraggio di chiamarlo in causa. Mai nessuno avrebbe avuto l'impertinenza di distrarlo dagli studi difficili e complicati oppure dalle faticose discussioni con la mamma Luigina o con la sorella Luciana. Diatribe verbali che si avvitavano nel tentativo di argomentare inconfutabilmente, l'uno alle altre e viceversa, le proprie capziose e futili ragioni. Le donne ben presto smettevano la disputa. Antonio, una volta vincitore non mostrava soddisfazione. La prova estrema, una sorta di orgasmo retorico, consisteva nel voler corroborare "scientificamente" la scarsa intelligenza delle due donne. I bambini, cui la lite arrivava di sottofondo a disturbare i rimpalli della loro partita di calcio, sapevano che la questione dialettica era conclusa nel momento in cui Antonio pronunciava la frase solenne: "...Imparate a vivere, ignoranti". L'uscio di sopra sbatteva, la fila di quindici scalini veniva superata in cinque lunghi e baldanzosi salti. Si apriva sul vicolo il portoncino del palazzo e Antonio si presentava energico come sempre. Capelli mezza lunghezza ondulati e ben fermi per l'effetto bagnato bagnato di brillantina e acqua, camicia nera di cotone filzata dentro la cinta, anch'essa nera a sorreggere pantaloni di jeans bianchi non abbastanza lunghi da coprire i mocassini di capretto blu, morbidissimi e calzati rigorosamente a pelle. La vista del pallone lo eccitava. L'effetto veniva aumentato, forse, dalla ennesima vittoria dialettica con la madre e la sorella, probabilmente, dal pensiero della partita a briscola e tressette che di lì a poco lo avrebbe occupato nell'intervallo prima di riprendere lo studio. I giovani astanti si fermavano alla richiesta insieme implorante e perentoria: "passa il pallone!". A quel punto tutti si facevano velocemente da parte. Rimaneva soltanto il portiere, vittima casuale delle sue imminenti peripezie tecniche. Antonio prendeva una rincorsa zigzagante, durante la quale avvertiva e godeva nel gridare: "tiro la bombaaaa!". La cosa stupefacente agli occhi dei ragazzini, e che nessuno riusciva a imitare, era il virtuoso saltello per via del quale staccava tutti e due i piedi da terra subito dopo aver colpito il pallone di collo-piede. Il missile partiva e quasi sempre impazziva su per le scale sino ad arrivare sulla strada. Il portiere, chiunque disgraziatamente fosse, si preoccupava solo di pararsi il viso, mentre gli occhi degli altri bambini correvano dietro al pallone per capire se fosse finito sotto un'automobile di passaggio. Il rito della bomba si ripeteva sei o sette volte. Dopodiché i mocassini di capretto blu, ripuliti alla meglio dalla polvere con il palmo delle mani nude, riprendevano a saltellare verso la parte bassa del vicolo, fino ad imboccare la scala che portava lontano dal terreno di gioco. Una sola parola di commiato apparentemente definitiva, tuttavia rituale: "Addio". I ragazzini rimanevano ogni volta colpiti dalla furia agonistica di quell'uomo. Ne traevano ammirazione e ispirazione, ma anche un po' di paura. Fatto è che il passaggio del ciclone definiva anche il termine dei giochi pomeridiani. Solo allora le mamme riuiscivano ad essere convincenti nel richiamare allo studio i giovani calciatori. Il gioco riprendeva più tardi, verso le sei del pomeriggio, sino all'ora di cena. Con le varianti della corsa dei tappini sulla pista disegnata a gesso, o con i salti nella "campana" rettangolare. Il rito si è ripetuto per tutti i giorni di tutte quelle stagioni a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta. Si giocava, nei vicoli. Si correva, si strillava, si sudava, si cadeva; si sbucciavano le ginocchia, i bambini. Ora vicolo Oscuro ha cambiato nome. È dedicato ad un emerito pittore. Assiste anemico al passaggio di qualche turista. Il suo sguardo è privo di speranza. Antonio ha vinto tanti concorsi, merito anche della abilità retorica maturata nelle discussioni domestiche. Oggi è giudice affermato. A chi lo incontra non parla del suo lavoro e dei suoi successi professionali, ma dei suoi tiri di collo-piede esibiti a quella piccola platea incantata di vicolo Oscuro. Allora sognava i centomila di San Siro, la sfortuna gli ha regalato solo l'uditorio di un tribunale.

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